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Storia

Stalla Sociale Santa Lucia-Bortolani

Storia

La stalla sociale di S. Lucia nel Comune di Castel d’Aiano

Tratto dal Libro: “L’oro Bianco di Pieve Roffeno”

Come tutti coloro che vivono a lungo spesso diventando ingombranti!) anche a me viene a volte la tentazione di raccontare lo svolgersi delle molte personali vicende attraversate, delle memorie e dei rimpianti, del rammarico per le cose che non sono riuscite: ma ho fortunatamente la serenità di sentirmi compiutamente un “EX” e di potere perciò scegliere qualcosa fra i ricordi: ecco perché emerge compiutamente fra questi l’inizio, i percorsi ed di risultati del complesso produttivo e commerciale di S. Lucia di Roffeno, fra Vergato e Castel d’Aiano, che ancora oggi prospera, nonostante le inevitabili molte difficoltà superate, confermando la validità di tutte le ipotesi e di tutte le speranze da cui si era partiti, fin dagli anni fra il ’60 e il ’70, in questo bel territorio della montagna bolognese.
In quegli anni la situazione dell’economia della zona era particolarmente delicata: molti terreni erano già stati abbandonati, a causa di un esodo rurale che era ancora intenso e progressivo; la coltivazione dei terreni poteva riguardare un numero ristretto di colture, con particolare riguardo peraltro alle foraggere; l’economia delle famiglie era sicuramente bisognosa di orientarsi ad iniziative con sufficiente sicurezza di collocazione dei prodotti agricoli, che potevano tuttavia essere meglio utilizzati in loco, che non esitati convenientemente fuori o lontano dal territorio; le infrastrutture civili (strade, supporti sociali, ecc.) erano sicuramente insufficienti.
Da questa situazione generale e particolare, sommariamente ricordata, alcune istituzioni pubbliche trassero motivo per un tentativo “programmato” di intervento, capace di coinvolgere responsabilità diverse in una coordinata espressione operativa: l’Ispettorato Provinciale dell’Agricoltura, allora esistente come organo periferico del Ministero dell’Agricoltura e Foreste, il Centro per l’Impiego Combinato delle Tecniche Agricole (I.C.T.A.) della Camera di Commercio bolognese ed il Consorzio di Bonifica Montana per l’Alto Reno, cercarono di armonizzare i molteplici fattori su cui ogni Ente aveva competenza per avviare studi, progetti ed interventi onde realizzare una vera e propria “iniziativa pilota”, strumento di ripresa per l’economia locale, ma anche “modello” significativo per tutta la collina/ montagna bolognese.

In questa visione si collocava come particolarmente importante la presenza del Consorzio di Bonifica, i cui compiti non si esaurivano soltanto nelle opere di difesa territoriale, ma esprimevano, con fatti concreti, le finalità di incentivo allo sviluppo economico generale di tutto il territorio ad esso sotteso.

Zangola in legno per la produzione del burro

(< Zangola in legno per la produzione del burro)

Straordinariamente positiva fu anche l’amicizia che legava tutti gli “operativi”, dei vari Enti: il dott. Antonino Sovrani, il dott. Gabriele Malaguti, il dott. Demetrio Poli, il prof. Umberto Bagnaresi, il dott. Claudio Negrini, che condivisero con me e con grande impegno le molteplici iniziative da affrontare.
In tutta l’area emergevano peculiarità valorizzabili: Labante, con la sua Abbazia storica e la natura specialissima di alcune zone rocciose del tutto differenti dal resto del comprensorio; la vocazione orientata allo sviluppo residenziale di Susano e Cereglio, ormai nota anche per la fonte di una pregiata acqua minerale; la Rocca e la Pieve di Roffeno, con il fascino della loro antica presenza religiosa; Castel d’Aiano e la sua zona, con l’emergere anche della produzione di eccellenza delle patate; mancava però uno strumento che animasse più ampiamente il complesso della economia agricola della zona ed esso fu individuato in una stalla sociale – appunto quella della Cooperativa Stalla Sociale S. Lucia – Bortolani , che in verità nacque dapprima come parte di una pluralità di complessi analoghi (Monte Pastore, Cà Bortolani, ecc.) che nel tempo si manifestarono però purtroppo incapaci di svilupparsi in modo solido e duraturo.
Molteplici le ipotesi positive per farli nascere: aggregazione imprenditoriale fra piccoli coltivatori; miglioramento ed organicità delle tecniche dei servizi; liberazione “sociale” dei singoli dalla permanente, personale, giornaliera, defatigante cura della stalla, che tante riserve sollevava logicamente anche sul valore e sulla formazione delle future famiglie. E così via .
Altrettanto molteplici e preclusivi dei risultati attesi erano gli aspetti negativi che emersero nel tempo: la mancata stretta e proporzionata produzione aziendale di foraggere; il ricorso ad un insostenibile mercato esterno degli alimenti per gli animali; ma specialmente l’attesa errata che la stalla sociale dovesse comunque rappresentare una sorta di assoluta certezza reddituale per tutti; a questo forse si aggiunse una insufficiente preparazione imprenditoriale dei responsabili.

Io stesso sento il sapore amaro del mio personale insuccesso di sostenitore del sistema, al quale non bastò il pur intenso lavoro di formazione professionale che si svolgeva nei comuni, nelle parrocchie, nei bar, dovunque uno spazio consentisse l’aggregazione serale o domenicale dei gruppi dei coltivatori delle varie zone.
Al di là di tutto questo, la Stalla Sociale di S. Lucia nacque, si sviluppò, superò molte difficoltà, affrontò disagi ed ostacoli: e non solo è ancora funzionale ed assai valida, ma ha anche ampliato il proprio campo di azione con un fornitissimo esercizio commerciale di prodotti semilavorati e finiti, cui ha dato un contributo qualitativo eccellente Giancarlo Roversi, con la sua passione per le cose concrete del mondo e delle civiltà contadina.
La COOPERATIVA STALLA SOCIALE SANTA LUCIABORTOLANI
fu costituita il 22.06.1967 ed ad essa parteciparono inizialmente 22 soci, provenienti da Casigno, Cereglio, Rocca di Roffeno, Savigno, Tolè, Vergato, proprietari coltivatori diretti nella zona di 27 aziende agricole, per una superficie complessiva di circa 500 Ha, dei quali a seminativo Ha 210, e a foraggi Ha 95, sufficienti a  arantire direttamente la maggior parte dei foraggi necessari all’allevamento dei 300 capi previsti come capienza della stalla progettata.

( Zangola, caldaia e altri attrezzi antichi per la raccolta e la lavorazione del latte >)

Zangola in legno per la produzione del burro

Il funzionamento della Cooperativa, che ha per principale compito istituzionale l’allevamento razionale in forma collettiva del bestiame bovino selezionato, si basa sul conferimento obbligatorio da parte dei Soci del foraggio e della paglia prodotta nelle singole aziende e sulla vendita in comune sia del bestiame che del latte prodotto, con riparto annuale a favore dei Soci – sia in natura che in danaro – degli utili ricavati dalla gestione, in proporzione ai foraggi ed alla paglia conferiti.
La stalla fu costruita dal Consorzio di Bonifica Montana per l’Alto Reno con un parziale, ma assai significativo, contributo in conto capitale dell’allora Ministero dell’Agricoltura e Foreste per tentare una sperimentazione delicata e difficile – che mai avrebbe potuto essere affrontata senza il supporto dell’iniziativa pubblica mettendo a disposizione di una intera area un concreto modello di sviluppo dell’economia locale.
Lo strumento scelto fu quello della concessione in gestione alla “Cooperativa Stalla Sociale S. Lucia – Bortolani” del “Centro Sperimentale di produzione ed allevamento di bestiame bovino selezionato S. Lucia in Castel D’Aiano” a far data dal 17.06.1968.
Nelle vicinanze della Stalla fu costruito, con procedure simili, il Caseificio Sociale “Rocca di Roffeno” che tanto ha contribuito al successo dell’iniziativa.
I Soci hanno partecipato nel tempo con il loro lavoro all’esecuzione della Stalla, rendendo maggiormente proficui i contributi, in gran parte statali, e “cementando” i rapporti fra istituzioni e privato.
Questa articolata e complessa azione comune ha rappresentato certamente il fattore vincente per l’affermazione, lo sviluppo ed il successo complessivo delle varie iniziative e non a caso si sono indirettamente favoriti essenziali altri elementi di sviluppo: una precisa salvaguardia del territorio e del patrimonio forestale contermine, la costruzione e l’esercizio di una strada di collegamento fra Tolè e Roffeno, la nascita di esercizi (agriturismo) per lo sviluppo economico dell’intero territorio, la ripresa della valorizzazione della antica Pieve di Roffeno, un complesso cioè di azioni integrate, come sarebbe auspicabile si sviluppassero anche in altre vallate.
È doveroso peraltro sottolineare che il sostegno e l’assistenza del Consorzio di Bonifica hanno avuto il punto più alto quando il medesimo Ente nel 1998 ha ceduto con una opportuna stima dei valori e precise clausole contrattuali la proprietà dell’intero complesso produttivo alla cooperativa, affrancandola così da una sorta di “ospitalità” e consentendone la pienezza e la totalità della disponibilità imprenditoriale diretta: la stalla sociale rappresenta così una sorta di sintesi virtuosa, vincente su tanti momenti di difficoltà (e di scoramento!) fra produzione, mercato, amalgama delle volontà dei singoli, continuità della presenza dei coltivatori nel territorio: non più un vincolo difficile e presente, ma la pienezza della propria dignità di uomini e di imprenditori, ancorché di relativa dimensione dei capitali.
L’avere da parte mia contribuito in vario modo al nascere ed al fiorire ed al consolidarsi di questa bella realtà cooperativa, in qualche modo compensa gli errore che in tanti anni di lavoro anch’io ho inevitabilmente commesso: continuo specialmente ad essere convinto che, come diffuse Saint Exupery “per fare avanzare la società si saprà indurre gli uomini a lavorare insieme”; ma di più mi piacerebbe contribuire a fare emergere due ulteriori piccole verità alle quali mi sono ispirato anche personalmente: una, che “la civiltà avanza perché in mille piccoli posti, mille piccoli uomini compiono ogni giorno mille piccole cose”; l’altra – ancora più intimamente convincente – (ed ancora parafrasando un Autore, Max Heindel), “che non si può essere sempre un astro splendente; si può essere anche soltanto una candela, ma fare luce là dove ve ne è il bisogno”.

Niente fu più come prima

di Gabriele Ronchetti

Santa Lucia di Roffeno, l’ambiente, la vita contadina, l’allevamento del bestiame e la produzione del latte fino agli anni ’60 del secolo scorso.

Sono ancora tanti quelli che si ricordano dell’aspetto di Santa Lucia alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso. Fossero allora ragazzi o persone già adulte – d’altronde sono trascorsi poco più di quarant’anni – tutti vanno col pensiero ad una valletta sperduta ai piedi del monte Pigna, raggiungibile soltanto da qualche sentiero o dalla mulattiera che saliva da Roffeno Musiolo, passando dalla borgata chiamata, non a caso, “Strada”. Un piccolo tratto di quella che fu una delle vie medievali più importanti nei collegamenti fra la Pianura padana e la Toscana, detta “Via Nonantolana”, che faceva capo giustappunto alla celebre e potente abbazia di Nonantola, nella cui orbita gravitò a lungo anche il monastero e la più modesta abbazia di Santa Lucia.
Insomma, un pugno di case senza corrente elettrica raccolte attorno ad un antico edificio chiesastico, prati, boschi e qualche campo coltivato. A pensarci oggi sembra proprio il microcosmo di un arcaico mondo rurale che, proprio in quegli anni, stava per lasciare il posto ad uno sconvolgente progresso. Già la guerra e il passaggio del fronte sulla Linea Gotica, una ventina d’anni prima, avevano squassato questi luoghi e la pur difficile ricostruzione aveva fatto presagire come non sarebbe più tornato quel precario e secolare mondo antico fatto di vita grama e pane nero. Niente sarebbe più stato come prima. Il “boom economico” arrivò anche tra queste valli come un benefico uragano, spazzando via in pochi anni la miseria, l’arretratezza e la solitudine della gente di montagna. Un processo che decretò la fine della mezzadria e della povera economia di sussistenza su cui intere generazioni di contadini avevano fondato la loro dura esistenza.
A Santa Lucia questo repentino progresso assunse le sembianze di una stalla sociale e di un caseificio.
Erano gli anni in cui i caseifici cooperativi spuntavano

spuntavano come funghi sull’Appennino, ma l’azzardo di una “stalla sociale” – almeno in provincia di Bologna – nessuno l’aveva mai tentato. Un atto di coraggio, senza dubbio, che, anche se assistito da provvidenze pubbliche, rappresentò un cambiamento non da poco per gli agricoltori della zona abituati a situazioni più ridotte e a dinamiche di semplice autosostentamento.
Il latte non usciva dal podere – e, men che meno, le bestie – e la pratica di trasformarlo in parmigiano reggiano (la cosiddetta forma) era pressoché sconosciuta in montagna, così come nessuno aveva mai nemmeno assaggiato quell’antichissimo e pregiato prodotto caseario destinato a diventare, in pochi decenni, prima fonte di reddito per molti contadini. I formaggi si facevano – e quasi tutto l’anno – ma erano quelli caserecci di mucca, stagionati in cantina e poi venduti anche a qualche mercante forestiero, mentre panna, ricotta e burro rimanevano a integrare l’alimentazione casalinga.
“Zootecnia” era una parola sconosciuta e l’allevamento dei bovini veniva svolto a livello puramente familiare, sia per il latte e il formaggio, sia per l’uso che delle bestie si faceva nei lavori agricoli pesanti. Una dozzina di capi in una stalla di piccole dimensioni, i campi coltivati a foraggio, in rotazione con i cereali, frumento e granturco in prevalenza, ma anche fava e altre granaglie per la roba nera da macinare al mulino e da utilizzare nell’alimentazione del bestiame. Questa era la fotografia di un podere montano di medie dimensioni.
Quella dei bovini era, ancor più degli ovini, una costante dei fondi rurali di queste zone. Una presenza insostituibile e necessaria che forniva, come s’è detto, cibo in casa e aiuto nei campi, ma che comportava un’altrettanto assidua presenza umana. Il contadino e i suoi animali: un legame fortissimo e una simbiosi perfetta. 

Non per niente, la stalla formava spesso con la casa colonica ununico edificio e, anche nel caso di due fabbricati, essi non erano mai troppo distanti fra loro.
Le bestie – come da sempre sono state definiti per antonomasia in queste zone i bovini – erano quindi, al pari del contadino, protagoniste della vita del podere e ne seguivano i ritmi imposti dalle stagioni.
Ad iniziare dalla primavera quando, dopo i rigori dell’inverno montano, si facevano “coprire” le vacche dai tori da monta, a casa propria o in trasferta in un podere vicino. Un’operazione idonea a far sì che le vacche potessero poi partorire in inverno, lontano dall’impegno e dalle fatiche dei lavori agricoli. Sì, perché prima dell’arrivo della meccanizzazione, tutti i lavori in campagna  che necessitavano di tiro e di trasporto erano svolti dagli animali, in particolare nella stagione estiva. E se a questi venivano demandati principalmente i buoi – gli animali ideali, massicci e possenti, con la forza del toro e la docilità della vacca – non era raro che anche le femmine fossero adibite ai lavori nei campi. All’epoca, lo scenario rurale era costituito quasi esclusivamente da vacche bianche di razza romagnola che, una volta partorito e svezzato il vitello, si “asciugavano” per il resto dell’anno.
Ancora non s’intravvedevano all’orizzonte né olandesi né brunalpine, le vacche lattifere per eccellenza, con enormi mammelle e una naturale propensione a produrre grandi quantità di latte.
Dunque, l’estate, la stagione deputata ai lavori nei campi, quei pochi mesi dove maturava e si concretizzava quel raccolto che avrebbe rappresentato la fonte di sostentamento familiare per il resto dell’anno, legato in particolare al frumento e al granturco, il primo per il pane e il secondo per la polenta. Seminato l’autunno precedente, dopo aver riposato i primi virgulti sotto la neve, il grano verdeggiava rigogliosamente sui pendii per tutta la primavera, per maturare infine tra i mesi di giugno e luglio. Dopo la mietitura a mano coi falcetti, il biroccio con i buoi portava nell’aia i covoni che, ammucchiati nella méda al riparo dai temporali, attendevano l’arrivo della macchina da battere e di tutta l’umanità che si radunava, oggi in un podere domani nell’altro, per celebrare la grande festa collettiva della trebbiatura sull’aia. Mitiche e autorevoli figure di macchinisti, fuochisti e pagliarini facevano funzionare uno dei primi macchinari che questi poderi avessero mai visto, con il vapore a fare da forza propulsiva – in attesa dell’arrivo dei motori a scoppio – al grosso e pericoloso cinghione che azionava il trebbiatore. Più semplice, anche se non meno impegnativa, la lavorazione di cui necessitava il granturco, fatta interamente a mano dopo l’opportuna asciugatura delle pannocchie dopo la mietitura.

Capannone del fieno a inizio lavori (1967)

Sotto un porticato o al lume di una lampada a petrolio nel tepore di una stalla, quella della spannocchiatura è rimasta nell’immaginario che ci riporta a quegli anni come una delle operazioni più “poetiche” e gioiose, dove si radunavano tante persone, ed era spesso un’occasione di festa, che non di rado sfociava in balli e canti, con generose libagioni di vino.
Momenti importanti della vita contadina, sia per i grandi, impegnati a sostenere la famiglia, sia per i piccoli, che poi ricorderanno tutta la vita quelle particolari scene che da un certo giorno non videro più. Valeva, come s’è detto, per la spannocchiatura e valeva per quel momento solenne che era l’arrivo della macchina a vapore e del trebbiatore trainati da robusti buoi fino all’impiazzo sull’aia.
Dalle mietiture si passava poi alle arature delle stoppie, dove il vomere rivoltava la terra che sarebbe servita ad ospitare le semine per l’anno dopo.
Un lavoro duro, lento e bisognoso di forza, per il quale serviva l’aiuto di un robusto tiro di buoi, a volte costituito anche da tre paia di bestie.
E poi c’era il fieno, il cibo che gli stessi animali avrebbero consumato per tutto l’inverno, in alternanza con la biada fatta di farina, crusca e sale minerale, o anche mescolato nella mistura con un po’ di paglia. 

Anche la fienagione – in tre tagli successivi, da maggio e settembre – era un lavoro importante e impegnativo per il podere, che abbisognava, come la mietitura, di molte braccia. In questo caso, però, servivano braccia capaci di usare la falce con maestria ed efficacia: il taglio radente e l’ampiezza dell’andana decretavano l’abilità del falciatore. Il quale sapeva poi mantenere efficiente il “filo” del tagliente con veloci e sapienti colpi di cote su ambo i lati del ferro. Anche qui, elementi di derivazione bovina accompagnavano le fatiche dell’uomo: il cozzale che ogni falciatore portava in cintura, contenente la pietra e l’acqua per l’affilatura, era realizzato in un corno di bue.
Una volta essiccato, il fieno prendeva la via di casa caricato sul biroccio. In parte finiva dentro al fienile e in parte restava allo scoperto ammassato nei pagliai: grandi pigne di fieno modellate attorno ad un palo di legno posto al centro, che un tempo non mancavano mai sui prati attorno alla casa colonica.
L’estate era anche la stagione delle fiere paesane, utili per comprare qualche merce particolare, per trovare mano d’opera per la mietitura o per la raccolta autunnale delle castagne, ma anche, spesso, per vendere o acquistare qualche animale. Molte erano le fiere del bestiame nei paesi attorno a

I dirigenti

Santa Lucia, ma la più rinomata di tutte era sicuramente quella di Brasa. Nell’ultimo lunedì d’agosto i prati attorno al vecchio santuario ospitavano uno spettacolo unico nel suo genere: una sterminata mandria di bovini le cui immagini furono perfino fissate sulle cartoline dell’epoca. Un brulicare incessante, da mattina a sera, di contadini, mercanti, animali, tra suoni di campanacci e gran vociare di trattative all’ultimo scudo.
Ma non c’era il tempo, allora, di indugiare in sentimentalismi folcloristici. Messi al sicuro frumento e frumentone, salvato il fieno dalle prime piogge di fine estate, l’autunno arrivava in un baleno e le consuete pulizie dei castagneti annunciavano l’altra grande stagione di raccolta per la famiglia contadina, quella delle castagne: il cibo e le proteine per l’inverno. Anche alle bestie toccava l’ultimo
lavoro prima del riposo invernale: il trasporto dal castagneto al metato, dove le castagne avrebbero trascorso un mese al caldo per ricavarne una dolcissima ed energetica farina da consumare in mille modi diversi durante la stagione fredda.
Ed eccolo arrivare, il rigido inverno dell’Appennino, dove – più spesso di oggi – abbondanti nevicate arrivavano anche fino al primo piano delle case.
Ma l’inverno era duro anche con poca neve, con una sfida e una terribile domanda che si rinnovava ogni anno nelle case contadine: le provviste accumulate durante la bella stagione sarebbero bastate? Chi non era proprietario del podere aveva dovuto fare a metà col padrone e non sempre era facile valutare la congruità di ciò che rimaneva col fabbisogno di famiglie quasi sempre numerose.
L’inverno poi, come s’è detto, era la stagione dei parti bovini. La rottura delle acque e il travaglio della vacca significavano spesso per il contadino trascorrere notti in bianco, magari passate proprio nella stalla in un improvvisato giaciglio di paglia. Era importante essere presenti in ogni momento: anche se c’era sempre un’immagine di Sant’Antonio Abate a vegliare su stalla e bestie, non ci si poteva permettere di rischiare la vita della vacca o del vitello. Non c’erano veterinari e il parto, annunciato dalla sporgenza all’esterno delle zampe anteriori del nascituro, veniva assistito dal contadino, dai familiari e, quando occorreva, anche dai vicini. Ovviamente allontanati i bambini.
Ufficialmente per non intralciare le delicate operazioni, ma anche perché – e ciò accadeva regolarmente anche in occasione della monta primaverile – sarebbe stato troppo lungo e complesso spiegare il miracolo della vita di un mammifero a dei bambini. L’avrebbero poi scoperto da soli crescendo, come accadeva per tutte le altre cose, più o meno misteriose, della vita.
Spesso le stalle erano, in inverno, il posto più caldo del podere, ed ecco che non di rado si trasformavano in accoglienti ritrovi per le “veglie” che i contadini si scambiavano vicendevolmente.
Se per il resto dell’anno i momenti di vita comune tra le famiglie erano per lo più legati al lavoro nei campi, quello delle veglie era invece un periodo di autentica socializzazione, dove grandi e piccoli stavano insieme tra chiacchiere, storie e racconti di vecchie passate.
Poi, anche l’inverno, bene o male, passava e ricominciava il ciclo della terra e dei lavori, uomini e bestie sempre insieme a cercare di cavar fuori anche dalla nuova annata sussistenza per il podere e la famiglia.

Il capannone del fieno a inizio lavori (1967)

La Cooperativa Stalla Sociale Santa Lucia-Bortolani come appare ora (2012)

Alle origini di Santa Lucia:

un esempio di collaborazione virtuosa fra enti dello Stato

di Maurizio Garuti

Il 23 maggio 1970 si svolse nella sede della cooperativa Santa Lucia, fondata da tre anni, un convegno su “La zootecnia associativa come strumento di valorizzazione dei territori appenninici”, promosso dall’Icta e dalla Camera di Commercio di Bologna. Di seguito, un brano della relazione svolta da Ernesto Stagni, presidente della Camera di Commercio.

Il Centro ICTA (Impiego combinato delle tecniche agricole) fu costituito nel 1956 dalla Camera di Commercio di Bologna ed era sostanzialemente un’azienda speciale della stessa Camera di Commercio che riuniva in una cooperazione solidalei principali enti regionali e provinciali che si interessavano dei problemi agricoli. (…) Gli impianti che qui vedetecostituiscono un esempio significatico delle possibilità di questa forma di collaborazione: l’Ispettorato compartimentale agrario ha promosso e ottenuto il finanziamento statale per la costruzione degli impianti; l’Ispettorato agrario provinciale è intervenuto per le operazioni di acquisto del bestiame; gli Ispettorati forestali si sono adoperati per la sistemazione dei pascoli e della viabilità; l’Ufficio del veterinario provinciale per tutto quanto attiene alla sanità degli allevamenti; il Consorzio di Bonifica, beneficiario del contributo statale, ha curato la progettazione e l’esecuzione dei lavori; l’ISES ha attivamente collaborato con l’ICTA nell’esplicazione dell’assistenza sociale alla popolazione del comprensorio. La Camera di Commercio infine è stata un po’ il centro organizzativo di tutto ciò; e, oltre ad aver contribuito al finanziamento, ha assicurato il funzionamento della sede e della segreteria organizzativa e tecnica svolgendo inoltre una funzione di collegamento fra i vari enti.

Baita edificata nell’anno 2000 in collaborazione con la famiglia Chiari per la presentazione di “Sua Maestà il Nero”

I protagonisti:

Testimonianza del Presidente Dario Zappoli

Sono 18 i soci fondatori di Santa Lucia. Furono loro a dare fiducia ai quattro “evangelisti” dell’ICTA venuti da Bologna: Bagnaresi, Malaguti, Sovrani e Stupazzoni. Mi ricordo bene l’antefatto, cioè il primissimo annuncio di ciò che poi sarebbe diventata Santa Lucia. Fu Luigi Lucchi (allora funzionario della Coldiretti, poi sindaco di Castel d’Aiano e presidente del Consorzio di Bonifica) a dirmi un giorno: “Senti, c’è l’occasione di fare una cosa un po’ strana per frenare l’abbandono della montagna… Un’occasione che non dovremmo perdere…”
Io allora avevo 17 o 18 anni. E a me, fra i primi, Lucchi spiegò la “strana” novità. Disse che sarebbe dovuta sorgere una stalla sociale a Ca’ Bortolani, ma poi il progetto era andato a monte per disaccordi fra i vari protagonisti. Ora la proposta era buona per noi: avremmo dovuto conferire il foraggio, circa 60 quintali all’anno per ogni capo di bestiame, che poi naturalmente ci sarebbe stato remunerato. Si trattava di una specie di adozione a distanza di una, due, tre vacche della stalla sociale, che ci impegnavamo a nutrire. Si doveva solo trovare l’area adatta per edificare la struttura.
Io ne parlai a casa con mio padre, che subito approvò l’idea. Avrebbe volentieri concesso il terreno, ma noi non disponevamo di un’area sufficiente.
Altri agricoltori si associarono subito, addirittura anticipando i tempi di costruzione della stalla. Alloggiarono nelle proprie stalle le vitelline acquistate dalla stalla sociale, che allora non aveva ancora una propria sede.
Le prime vitelline alpine arrivate a Santa Lucia – quando Santa Lucia non c’era ancora – furono accudite direttamente dai contadini, dietro un compenso per il mantenimento. Intanto i muratori stavano ultimando la costruzione della stalla. Occorre dire che le vitelline erano bovini pregiati, allevati sul pascolo, scelti accuratamente sulle Alpi, in Valtellina.A un prezzo relativamente basso dato l’acquisto per così dire all’ingrosso. Fu una scelta azzeccatissima, pilotata dal Consorzio di Bonifica, perchè quando fu terminata la stalla, le vacche erano già perfettamente ambientate nel nuovo contesto. E anche la catena produttiva era già pronta, non occorse aspettare un anno, due anni, perché i vari ingranaggi (zootecnici e strutturali) fossero a regime. Partimmo in quarta, per così dire. Abituati in stalle di cinquanta metri quadrati, ci trovammo una stalla che ci giravi in bicicletta.

Il fienile nel 1967 a inizio lavori

Testimonianze degli altri protagonisti

Prima di scegliere la sede definitiva di Santa Lucia, si era individuata con Luigi Lucchi un’altra area, quella di Tolè. Sembrava la sede adatta perché in quella zona c’era più pascolo, meno castagneto, meno bosco. Ma non si trovò la base sociale, vale a dire la molla umana, che invece scattò subito qui, e fu questa la prima ragione del successo di Santa Lucia.
Lucchi è stato una figura fondamentale per lo sviluppo di questa esperienza cooperativa. A cominciare dal terreno scelto per la stalla, che apparteneva alla famiglia della moglie. Lucchi, che risiedeva qui, è stato per così dire l’ufficiale di collegamento fra gli agricoltori del posto e i tecnici dell’ICTA.
Ma non fu l’unico, in sede locale, a rivestire un ruolo da protagonista. Demetrio Poli, dipendente della Camera di Commercio e sottoposto di Antonino Sovrani, era il sergente che stava qui tutti i giorni, con l’incarico di assistente tecnico e contabile. Era un uomo esuberante, pieno di vitalità. Cantava, amava il ballo, e quando il Consorzio costruiva una strada raccomandava sempre di non dimenticare le “piazzole amorose” per le effusioni delle coppie e per frenare lo spopolamento della montagna.

Enzo Mordini, dell’Ispettorato Agrario che faceva capo a Giorgio Stupazzoni, laureato in agraria, esperto zootecnico, era colui che sovrintendeva alla selezione del patrimonio bovino.
Ezio Malaguti, direttore amministrativo dell’Alto Reno, revisore dei conti di Santa Lucia, saliva qui due sere la settimana e controllava l’andamento economico e contabile. A lui si deve una conduzione oculatissima dei bilanci e degli investimenti. Fu lui a pilotare la cooperativa di Santa Lucia nel mercato. Era uomo capace di infondere fiducia alla gente, di far sentire al socio il vincolo cooperativo ma anche la sua libertà: l’azienda comune doveva rappresentare la nostra eccellenza, non i nostri scarti. Se uno avverte soltanto il vincolo, senza contropartite, tende a scappare e comunque ti dà i foraggi peggiori, porta al caseificio il latte peggiore, magari annaffiato con acqua. E l’azienda va in malora. Se uno, oltre al vincolo, continua a sentirsi libero – sosteneva Malaguti interpretando quello che da sempre è lo spirito di Santa Lucia – non se ne va: lui resta e ti porta il latte migliore.
Molti caseifici sono falliti anche perché vincolo e libertà non erano ben definiti.
Giuseppe Lolli è stato il primo presidente della stalla. Siamo sul finire degli anni Sessanta. Non era propriamente un agricoltore. La sua attività principale era di tagliaboschi, commerciava legname.
Ma credette subito nel progetto della stalla e vi si buttò con grande impegno. Fu una presidenza relativamente breve, perchè la morte l’interruppe.
Gli successe Amedeo Mezzini, agricoltore (nel suo terreno sorge la Pieve di Roffeno, antica chiesa vallombrosana), Pietro Tonioni e Mauro Evangelisti.
Un benemerito di Santa Lucia, sia della stalla che del caseificio, è stato Mario Dozzi,
coltivatore. Di lui si può davvero dire che ci ha messo l’anima, al punto da trascurare la sua azienda e la sua famiglia. Era membro del Consiglio direttivo, non ha mai voluto la carica di presidente: “Se io faccio il presidente, non trovo uno come me che mi aiuti tutti i santi giorni. Meglio che un altro
faccia il presidente, così uno accanto a lui per aiutarlo c’è sempre: io. Così siamo in due a rimboccarci le maniche, impegnati a tempo pieno…” A Santa Lucia lui  praticamente ci viveva. Un busto in bronzo, posto davanti alla sede della cooperativa ne ricorda l’opera. Quando qualcuno lo cercava a casa, sua moglie diceva: “Andate a Santa Lucia.” Se non lo trovate lassù, venite giù perché vuol dire che sta andando su.” L’attuale presidente della stalla è Susanna Dozzi, figlia di Mario.

Qualche parola infine sullo “stile” di Santa Lucia.
Caposaldo ideale della cooperativa, fin dagli inizi, è sempre stato quello di convincere ed educare l’agricoltore al vantaggio dell’impresa comune. Col metodo della persuasione, dell’istruzione a un’agricoltura più avanzata. Ad esempio: per il foraggio che portava, il contadino non veniva pagato a peso, indipendentemente dalla qualità. Al contrario, c’erano tre gradi di valutazione per il foraggio: ottimo, buono, mediocre. Un apparecchio apposito ne misurava l’umidità, elemento essenziale per un giudizio di valore. E su questa strada la cooperativa è cresciuta e si è qualificata. Oggi c’è una classificazione anche per il latte. L’agricoltore che lavora bene, portando del buon latte, viene premiato con la remunerazione. Ci sono pagamenti differenziati.
Del resto, se non adotti criteri meritocratici, come stimoli il contadino associato a lavorare bene?
Facciamo un altro esempio. Il foraggio segato è sul campo, sta per cominciare a piovere. O corri con tutta la famiglia a fare dei mucchi per proteggerlo, o te ne infischi e lo lasci a fermentare per terra. Se lo porti alla stalla sociale asciutto, mantiene tutto il suo valore energetico, proteico e biologico; se è fermentato, non solo ha perso le sue proprietà, ma finisce per inquinare il latte sano, perché se mandi al caseificio un latte carico di batteri, il formaggio non riesce. Da noi, il contadino queste cose le conosce, e corre a riparare il fieno dalla pioggia, ben sapendo che la sua fatica sarà retribuita. 

Alcune manzette Brune Alpine in fase di accrescimento

Forti di questi principi, abbiamo già alle nostre spalle più di quattro decenni di vita. Abbiamo modernizzato le nostre strutture, abbiamo fatto una sala di degustazione dei nostri prodotti. Fiducia nel futuro e intraprendenza sono intatte, sia pure attraverso gli alti e bassi del mercato e dell’economia. Santa Lucia è un patrimonio di lavoro e di cultura sociale che vogliamo salvaguardare e trasmettere a chi verrà dopo di noi. Abbiamo un mercato che era impensabile quando abbiamo importato le prime vitelline e posato le prime pietre della stalla. Oggi, da qui partono uno yogurt e un formaggio che viaggiano per tutta Europa, fino a Mosca.

Storia

Finanziamento dal Programma per lo Sviluppo Rurale (PSR) dell’Emilia-Romagna 2014-2020

La Stalla Sociale Santa Lucia-bortolani s.a.c. è beneficiaria di un contributo del FEASR (Fondo Europeo Agricolo per lo Sviluppo Rurale) per un progetto approvato a valere sul PSR (Programma per lo Sviluppo Rurale) Emilia-Romagna 2014-2020 – Domanda unica: REG (UE) 1307/2013 – indennità compensativa: REG (UE) 1307/2013 Operazione 13.1.01

Tipo di operazione 16.2.01 – Approccio di sistema – Avviso Pubblico D.G.R. 227/2017 del 27 febbraio 2017,da realizzare con la modalità ” approccio di filiera” (compreso nel Progetto di Filiera F67).
Il progetto di Filiera in argomento denominato: ” Parmigiano Reggiano di Montagna: le sfide della qualità nell’ evoluzione climatica e dei mercati” della filiera Consorzio Terre di Montagna del settore lattiero caseario – Formaggi DOP che è risultato essere ammesso a finanziamento tramite utile posizionamento in graduatoria così determinato con atto del dirigente competente Regione Emilia Romagna n. 10338 del 02/07/2018.
Include l’ ammissibilità a finanziamento del progetto di realizzazione stalla libera della S. Lucia Bortolani s.a.c. Detto Progetto è terminato.
Il predetto contributo ha avuto esito positivo, le attività di collaudo da parte dell’ ente concedente è stato incassato il 1871172021

Per info sulle operazioni cofinanziate dal FEASR: 
https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?uri=LEGISSUM:l60032&from=IT 

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